Due corpi sdraiati a faccia in giù nella sabbia del deserto che separa la Tunisia dalla Libia, abbracciati. Questo terribile scatto è stato realizzato dal giornalista libico Ahmad Khalifa. È stato poi trasmesso dalle ONG per denunciare il trattamento disumano dei rifugiati da parte delle autorità tunisine. Fati Dosso e sua figlia Marie di 6 anni sono morte tragicamente nel deserto libico, vittime di stenti, dopo essere state deportate nella zona cuscinetto di Ras Jedir tra Libia e Tunisia. Sono morte letteralmente di fame e di sete, disidratate. Fati aveva 30 anni ed era originaria della regione occidentale della Costa d’Avorio, per la precisione era nata in un piccolo villaggio chiamato Man. Dalle informazioni disponibili si apprende poi che alla morte dei genitori la giovane si era trasferita in Libia, dove per 5 anni aveva vissuto col marito, Meengue Nymbilo Crepin, chiamato però Pato, anche lui trentenne. I due avevano una figlia, Marie, che quando è morta aveva solo 6 anni. La ricerca di una nuova vita, di un futuro migliore non solo per sé ma soprattutto per la loro bimba, perché potesse crescere in un Paese dove fame, povertà, risorse pressoché inesistenti, istruzione quasi impossibile, politiche assassine fossero solo un ricordo. Ma come per i tanti che cercano di arrivare sulle coste del Mediterraneo scommettendo tutto pur di attraversarlo, le speranze si sono infrante ancor prima di arrivare a metà strada. La loro foto, quella dei loro corpi appunto, supini su quel mare di sabbia, rileva Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti” ha fatto il giro del mondo sul web, rimbalzando di sito in sito finché quei cadaveri hanno trovato un’identità. Ormai troppo tardi. Centinaia di migranti africani, tra cui donne incinte e bambini, si trovavano ancora mercoledì nella zona cuscinetto di Ras Jedir tra Libia e Tunisia, dopo essere stati portati lì dalle autorità tunisine, secondo le testimonianze raccolte. Circa 140 migranti provenienti dall’Africa sub-sahariana, che dicono di essere lì da tre , hanno allestito un accampamento di fortuna ai margini di una palude salmastra, a 30 metri dal posto di frontiera libico di Ras Jedir (nord). Senza acqua né cibo, uomini, donne e bambini cercano di sopportare il caldo di giorno e il freddo di notte, senza alcun mezzo per ripararsi dal sole e dal vento. “Non sappiamo dove siamo. Stiamo soffrendo qui, senza cibo e acqua”, ha detto George, un nigeriano di 43 anni, alle agenzie di stampa. “I libici non ci permettono di entrare nel loro territorio ei tunisini ci impediscono di rientrare. Siamo bloccati nel mezzo di tutto. Aiutaci per favore! Oppure mandate una nave di soccorso”, ha implorato i Paesi europei. Secondo le testimonianze delle guardie di frontiera libiche, altri due gruppi, di circa 100 persone ciascuno, si trovavano nella zona cuscinetto di Ras Jedir tra Libia e Tunisia, dopo gli scontri del 3 luglio nella città tunisina di Sfax tra migranti subsahariani e gente del posto. Questi scontri avevano provocato la morte di un tunisino. Centinaia di africani furono poi cacciati da Sfax, seconda città della Tunisia e principale punto di partenza dell’emigrazione clandestina verso l’Europa. Un totale di 1.200 africani sono stati “espulsi” dalla polizia tunisina in aree inospitali vicino alla Libia a est e all’Algeria a ovest, secondo l’ONG Human Rights Watch. La Mezzaluna Rossa tunisina è poi andata in soccorso di circa 600 sul versante libico, e diverse centinaia sul versante algerino, distribuiti nei centri di accoglienza. Per il momento le autorità libiche, che faticano a gestire gli oltre 600.000 migranti presenti nel Paese, stanno offrendo acqua, cibo e cure a piccoli passi attraverso la Mezzaluna Rossa libica. Negli ultimi 10 giorni le guardie di frontiera hanno dato rifugio a diverse centinaia di migranti, trovati vaganti nella zona desertica di Al’Assah, a sud di Ras Jedir dove sono stati ritrovati negli ultimi giorni almeno cinque cadaveri.
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Senza acqua né cibo, mamma e figlia muoiono nell’indifferenza totale nel deserto tra Libia e Tunisia
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