Ieri, al calar del sole, il gruppo di Napoli Animal Save si è raccolto a Rotonda Diaz per l’evento Seaspiracy, basato sull’omonimo documentario diretto da Ali Tabrizi e distribuito su Netflix.
Documentario che, in poco tempo, è balzato in testa alle classifiche in una cinquantina di paesi e che ha suscitato l’indignazione dell’opinione pubblica, arrivando a scardinare molte delle nostre convinzioni circa l’industria della pesca.
Alle 18:00 erano in tutto venticinque gli attivisti e le attiviste che presiedevano all’evento, alcuni muniti di pc per mostrare ai passanti le terribili immagini della pesca, altri ancora – vestiti da sirene o da meduse – hanno simulato, attraverso una performance coinvolgente, la morte dei mari e dei suoi abitanti. Il tutto si è svolto con un banner lungo ben cinque metri e riportante la scritta “Seaspiracy”, volto a catturare l’attenzione dei passanti che, incuriositi, si raccoglievano intorno agli attivisti.
Fondamentali e numerosi, infatti, i momenti di confronto fra gli attivisti e attiviste ed i passanti: confronto avvenuto secondo il metodo socratico e quindi attraverso lo scambio di domande e di riflessioni, in modo da incoraggiare le persone a mettere in discussione le proprie abitudini alimentari.
Durante gli outreach si è parlato anzitutto dell’impossibilità di un’industria della pesca sostenibile, impossibilità dovuta a diversi fattori quali: l’eccessivo consumo di pesce e il consequenziale depauperamento degli oceani; fra i fattori più importanti abbiamo ancora l’inquinamento dei mari e il problema spaventoso e dilagante della violazione dei diritti umani. Tutti questi problemi, nascosti ad arte dalle grandi industrie, sono stati riportati alla luce durante l’evento
Allora cosa si nasconde davvero dietro alle menzogne rigurgitate quotidianamente dalle pubblicità e le televisioni? Si nasconde, purtroppo, una realtà ben diversa e più drammatica.
Si pensi alla mattanza dei delfini, giustificata perché questi ultimi sarebbero in “concorrenza” con l’industria del tonno rosso, ma la verità è che oggi meno del 3% dei tonni rossi è sopravvissuta nei nostri mari a causa della pesca intensiva. Questa pratica, oltre a essere responsabile della scomparsa del tonno, sta quindi causando anche la scomparsa dei delfini che, se non vengono prelevati dagli oceani per essere venduti ai parchi acquatici, vengono brutalmente uccisi ogni anno. Mangiando pesce, stiamo condannando a morte la popolazione dei delfini. Si pensi ancora alla mattanza degli squali, uccisi in quantità spaventose e le cui pinne vengono vendute in Cina, conosciuta appunto per la zuppa di pinne di squalo. La scomparsa di questi predatori naturali, però, causa diversi problemi agli ecosistemi: gli squali, così come i delfini, sono infatti responsabili dell’ossigenazione degli oceani. Non dobbiamo temere la presenza di squali, bensì la loro assenza. Proteggere queste creature in piena crisi climatica, significa proteggere l’intero pianeta e se queste creature muoiono, muore l’oceano. Se l’oceano muore, moriamo anche noi.
Altro problema molto grave è la cattura “accessoria”, causata per lo più dalla pesca a strascico. Tale pratica consiste nel trainare nei mari enormi reti che portano via ogni cosa: non solo catturano accidentalmente tonni, delfini, salmoni e tante altre specie di pesci – al punto che si stima che di tutto il pescato mondiale, il 40% rappresenti pescato accessorio – ma creano anche un impatto enorme sugli oceani. A causa di ciò vengono infatti asportati interi coralli, lasciando un ambiente devastato, la cui ricomposizione richiede molto tempo.
E i marchi “salva delfino” presenti sui prodotti a base di tonno che certificano che il tonno in questione sia stato pescato senza catturare accidentalmente delfini? In questo caso si può parlare di pesca sostenibile? La verità è che questa è un’altra grande bugia inventata dall’industria della pesca. Il responsabile stesso, davanti alle telecamere, alla domanda di Ali Tabrizi “si può garantire che tutte le scatolette con etichetta “salva delfino” siano effettivamente state prodotte senza uccidere delfini?” ha risposto che “nessuno lo può garantire, poiché gli osservatori che si trovano a bordo delle navi possono essere corrotti.”
In fine, un altro grave problema è quello rappresentato dalla plastica. Aumentano sempre di più le immagini di vere e proprie isole di plastica che galleggiano sui mari e che costano la vita a migliaia di pesci e ad altre forme di vita. Troppo spesso si sente parlare di pesci imbrigliati in piccole reti di plastica o di preoccupanti quantità di plastica trovate negli stomaci di balene, squali, delfini e tanti altri pesci. Tutto questo contribuisce a distruggere il delicato equilibrio marino. Ma siamo sicuri che ridurre il consumo della plastica sia davvero l’unico modo – e il migliore – per salvare i nostri mari? È davvero possibile mantenere gli ecosistemi vivi rinunciando a cannucce e ad altri materiali in plastica, ma continuando a finanziare, allo stesso tempo, la pesca commerciale? Gran parte della plastica – secondo le stime, tra il 46% e il 52% – responsabile dell’inquinamento degli oceani è infatti costituita da reti e attrezzature da pesca, come lenze e cime. La questione fondamentale è che stiamo facendo enormi danni all’oceano e questo è un fatto. A un certo punto si esaurirà. Che si tratti nel 2048 o del 2079, la domanda è: la direzione della nostra traiettoria va dalla parte sbagliata o dalla parte giusta?
Sebbene i pesci siano gli animali più sfruttati al mondo e la loro sofferenza susciti ancora un palpabile scetticismo, un comitato scientifico dell’Unione Europea ha concluso che i pesci – proprio come tutti gli essere senzienti – sono in grado di provare dolore e paura. Creature dalla spiccata intelligenza e dalla vita sociale complessa, sono molto simili a noi più di quanto pensiamo. Alla luce di quanto detto, non sarebbe giusto e compassionevole lasciar vivere tutte le creature marine in pace e in fiumi, mari e oceani puliti e pullulanti di vita?
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