Il primo obiettivo di questo provvedimento, approvato dalla Camera dei deputati in prima lettura nella seduta del 9 marzo, è quello di riconoscere piena dignità ai testimoni di giustizia, definirne l’identità e il rapporto con lo Stato perché ancora oggi si fa troppa confusione tra i testimoni di giustizia e i collaboratori di giustizia.
Confondere un testimone con un collaboratore è un’offesa grave, che va evitata, prima di tutto nel lessico e quindi nell’atteggiamento conseguente. Il collaboratore di giustizia, infatti, è un delinquente che decide di negoziare con lo Stato condizioni migliori del trattamento penitenziario, processuale ed economico in cambio di informazioni sui reati che questi abbia commesso o che altri abbiano commesso. Talvolta questo negoziato si apre a seguito di una reale conversione esistenziale, ed è per questo che nella vulgata i collaboratori sono spesso definiti «pentiti». Tutt’altra storia è quella dei testimoni di giustizia, che invece sono persone perbene che hanno subìto un crimine, oppure ne hanno visto commettere uno e decidono di reagire denunciando.
Il secondo obiettivo è quello di definire l’identità dei testimoni di giustizia, di chi, denunciando ciò che ha subito o ciò che ha visto, si mette in una condizione di pericolo talmente concreto, grave e attuale tale da rendere inadeguate le misure di protezione ordinarie.
Il terzo obiettivo della legge è quello di descrivere il rapporto tra il testimone e lo Stato. Solo i magistrati che, in rapporto con le forze dell’ordine, conducono le inchieste sono in grado di apprezzare l’insorgere del pericolo qualificato e il permanere nel tempo di tale pericolo. Pur essendo, infatti, il nostro sistema di protezione tra i migliori al mondo, frequenti sono i disagi, i traumi veri e propri cui le persone sottoposte alle misure vanno incontro.
Questa legge è dedicata a quegli uomini e a quelle donne che hanno scelto la via della denuncia in un tempo in cui non esisteva nemmeno uno straccio di norma a loro tutela. A loro e a tutti i testimoni di giustizia che ancora oggi stanno nel sistema di protezione deve andare la riconoscenza della Repubblica italiana, che non ha ancora fatto i conti fino in fondo con la cultura mafiosa, con la cultura dell’omertà, del farsi i fatti propri per evitarsi i problemi, e lo dobbiamo in particolare ad una giovanissima siciliana che alla vendetta mafiosa preferì la giustizia e la legalità, e che per questo si affidò allo Stato, che per lei ebbe il volto e le premure di Paolo Borsellino. Lo dobbiamo a Rita Atria, che scelse di non sopravvivere alla morte di Paolo Borsellino e che ci lasciò l’onere di impedire per il futuro tanta violenza e tanta sofferenza.
Per ulteriori approfondimenti si rinvia ai lavori parlamentari del provvedimento “Disposizioni per la protezione dei testimoni di giustizia” AC 3500 – relatori per la II Commissione Giustizia Davide Mattiello (PD) e Stefano Dambruoso (CI) – e ai relativi dossier del servizio studi della Camera dei deputati.
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